symbolum


Il simbolo è qualsiasi elemento che evoca un’idea diversa da quella del suo immediato aspetto sensibile: nel senso filosofico è un punto di ricongiunzione tra l’elemento visibile e quello invisibile. Parafrasando Cassirer, si può dire che in ogni opera d’arte la materialità è completamente assorbita dalla funzione di significare, da essa emerge un contenuto spirituale che va oltre l’elemento sensibile. L’esistenza dell’immagine sorge solamente dal significato, dal senso che chi osserva le conferisce. Ogni forma simbolica produce così un suo proprio mondo di significati. Questo il senso dello sfondo bianco, che permette di concentrare l’attenzione sull’immagine e che si propone come spazio interpretativo. Difronte a queste immagini l’osservatore si pone come homo religiosus o come homo laicus. Nella sfera religiosa il simbolo tende a rifluire nel concetto di “mistero”, in contrapposizione a ciò che è profano. Il sacro si manifesta nello spazio e nel tempo e viene percepito dall’uomo che vi coglie la presenza di una realtà differente. L’oggetto sacro resta un oggetto (dei chiodi, una corona, una lancia) ma agli occhi dell’homo religiosus acquista una dimensione nuova: irrompe la realtà misteriosa e l’oggetto naturale viene rivestito di una dimensione sacrale. Il sacro dà all’uomo la possibilità di entrare in relazione col divino, attraverso il simbolo, che diventa strumento per vivere la propria esperienza del sacro. L’homo laicus, o se vogliamo non religioso, non coglie il movimento esterno verso il mistero, ma attraverso il simbolo dà senso alla propria esperienza umana. La precomprensione dell’oggetto che guida l’interpretazione dipende dai propri interessi, dalla propria cultura e si radica nella propria esperienza vissuta. Il rapporto di comprensione che lega l’interprete all’opera, diventa appropriazione: interpretando il soggetto interpreta anche se stesso. Ecco che ogni osservatore, religioso o no, grazie allo sfondo bianco, può leggere l’opera, interpretarla, dandole una dimensione semantica che acquista senso per lui stesso, in quel momento.


Rachele Galli

Giunti a un luogo detto Gòlgota, che significa luogo del cranio, gli diedero da bere vino mescolato con fiele; ma egli, assaggiatolo, non ne volle bere. Dopo averlo quindi crocifisso, si spartirono le sue vesti tirandole a sorte. E sedutisi, gli facevano la guardia. Al di sopra del suo capo, posero la motivazione scritta della sua condanna: «Questi è Gesù, il re dei Giudei».

Insieme con lui furono crocifissi due ladroni, uno a destra e uno a sinistra.

E quelli che passavano di là lo insultavano scuotendo il capo e dicendo:  «Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso! Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!». Anche i sommi sacerdoti con gli scribi e gli anziani lo schernivano:  «Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso. È il re d'Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo. Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: Sono Figlio di Dio!». Anche i ladroni crocifissi con lui lo oltraggiavano allo stesso modo.Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio si fece buio su tutta la terra. Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: «Elì, Elì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Costui chiama Elia». E subito uno di loro corse a prendere una spugna e, imbevutala di aceto, la fissò su una canna e così gli dava da bere. Gli altri dicevano: «Lascia, vediamo se viene Elia a salvarlo!».

E Gesù, emesso un altro grido, spirò.

 

Matteo 27,33-50

EXHIBITION

symbolum

SAVE THE DATE


Microbo.net è un progetto dedicato al non-luogo dell’arte, un’iniziativa innovativa, che si pone ai confini del sistema dell’arte, in modo 100% free. Microbo.net ha come scopo principale la promozione degli artisti: propone mostre virtuali che cercano il dialogo tra opere d’arte contemporanee, il più delle volte sconosciute (o non ancora conosciute) al sistema dell’arte.

Il trittico è un formato affascinante, cui siamo avvezzi per molte ragioni: è dal medioevo infatti che trittici di varia natura e vari materiali ci osservano dalla storia dell’arte, e ci affascinano col loro offrirci punti di vista differenti, ma anche con il proprio avvolgerci, utilizzandoci come ideale chiusura dello spazio aperto che il trittico definisce. Al contempo abbiamo adattato la struttura tripartita anche ad altri utilizzi, più prosaici forse ma non meno importanti, quali ad esempio le specchiere per il trucco, in cui ancora una volta ci immergiamo per osservarci da ogni lato. Siamo così passati dallo spirituale all’estetico, ma in ogni caso indaghiamo, osservandole da più prospettive, le nostre anime e i nostri volti, in una sorta di approfondimento del sé che può essere interiore e esteriore. Il trittico però può essere anche interpretato come una sequenza logica o temporale, non necessariamente sincrona, quindi indagine che non si svolge solo in estensione, ma anche in maniera verticale seguendo il filo del discorso o il succedersi cadenzato degli eventi. Per questo ci sembra affascinante l’idea di chiedere ai nostri artisti di utilizzare questo formato: tre immagini che raccontino, in estensione o in profondità, sincronicamente o diacronicamente una storia, unite dal filo rosso del formato e dalla potenza del numero, che ha affascinato l’uomo sin dai tempi di Pitagora – che lo definiva il numero perfetto, sintesi di uno e due, chiusura della cosiddetta triade ermetica.

Cappella Marchi - Seravezza (LU)

Cappella Marchi - Seravezza

SYMBOLUM

a cura di Domitilla Rossi e Lorenzo Belli


D’Angelo ha accettato la sfida di confrontarsi con lo spazio del nuovo project space Cappella Marchi gestito da Alkedo che si contraddistingue per il dialogo tra ambientazione classica e nuovi linguaggi dell'arte contemporanea. La ricerca di D'Angelo è una gestazione continua di temi dell’attualità trasformati in fotografia che ben si fondono e sono messi in risalto da questo spazio espositivo non convenzionale. Con Symbolum l'artista sembra concentrarsi sugli strumenti, oggetto/simbolo dell'arma Christi: la corona di spine, i chiodi e la punta di lancia. La serie fotografica, concepita anni fa, ma che solo adesso ha trovato una perfetta collocazione nello spazio, conta altri scatti ma sono stati selezionati solo quelli che suggeriscono un senso di dolore. Questi oggetti/soggetti fotografici hanno un grande impatto empatico sull’osservatore grazie anche alla tecnica usata da D’Angelo di inserire gli oggetti su sfondo bianco non perfettamente centrati nello spazio affinché quello stesso spazio sia colmato individualmente. A tal proposito, questa ricerca fotografica vuole aprire un dialogo, uno spazio interiore in cui riflettere sull'elaborazione personale delle sofferenze e sulla ricerca della natura di queste. Gli oggetti fotografati dall'artista nel corso degli anni rispecchiano non solo oggetti di uso comune ma anche momenti di sofferenza che creano consapevolezza: ci si interroga sul perché sia necessario sopportare questo dolore, per poi accorgersi che tutto questo è necessario per raggiungere una crescita personale. Ancora una volta con questa serie l’artista propone allo spettatore la libertà di colmare quello spazio bianco lasciato al di sopra dell'inquadratura, come uno specchio in cui riconoscersi.


L’esposizione, organizzata da Alkedo (FB @associazionealkedo) con il patrocinio del Comune di Seravezza e del Museo Ugo Guidi, verrà inaugurata sabato 4 settembre alle ore 18.30 e si protrarrà fino al 19 settembre dal venerdì alla domenica con orario 18-20.30.

L’ingresso sarà contingentato per possessori di green pass anche su appuntamento fuori dall’orario.


Domitilla Rossi e Lorenzo Belli

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PRIVATE COLLECTION

ARTICLES and PRESS RELEASE

L’emozione è forte di fronte a questa specie di “Teologia laica della Luce” che viene narrata dalle immagini del tuo Symbolum, Florian.

Certo, il primo sguardo alle tue opere si fa carico di sgomento, perché la nostra vicina o lontana formazione religiosa riconosce quegli oggetti di tortura e di morte. Dà loro un volto, che è quello dell’Uomo dei dolori, il Nazareno percosso, umiliato, schernito, legato, offeso, trafitto ed ucciso dagli uomini di ogni tempo. Le punte acuminate di quegli oggetti sembrano venire incontro alle nostre vite. Così i dolori del Nazareno diventano, in quelle immagini, le nostre sofferenze. Sono la nostra vicenda umana. Noi possiamo vedere e sentire la fatica del nostro passato e del nostro presente, l’angoscia per il futuro. In quegli oggetti, che sembrano volerci stringere in un abbraccio mortale, siamo noi, insieme all’Uomo Gesù, percossi, umiliati, scherniti, legati, offesi, trafitti ed infine uccisi, appesi alla croce della nostra esistenza fino a perdere il respiro. Al primo sguardo la sensazione è che la via della croce sia ineluttabile e porti al nulla della morte.

Ma le tue immagini hanno in realtà un orizzonte molto più vasto. Ecco perché io parlo di Teologia della Luce. Quella stessa del Vangelo di Giovanni: Cristo è la luce che sconfigge la tenebra e dà vita. (Gv.8,12) Ecco il bianco! Forse quegli oggetti di dolore e di morte non ci vengono incontro, ma grazie ad un abile gioco di prospettiva e profondità, sono come risucchiati dal bianco. Sono essi stessi trasfigurati.

Così come gli amici di Gesù sulla vetta della montagna, di fronte a queste grandi immagini bianche, possiamo fare esperienza di ciò che realmente è la trasfigurazione: “Le sue vesti divennero candide come la luce”. (Mt. 17,2) Sono proprio quelle vesti a diventare luminose. E’ la “materia laica” che viene trasformata! Così questi oggetti di dolore e morte che abbiamo davanti divengono essi stessi strumenti di speranza.

Nelle tue foto c’è il racconto dolce e consolante della vita che vince. E’ la nostra vita trafitta e crocifissa che grida la risurrezione! Diventa cioè capace di riconoscersi meravigliosa, infinita, sconfinata. La tua corona di spine, che è anche la nostra, appare alla fine “candida come la luce”.

Se di tutto questo non ci accorgiamo immediatamente è forse perché tutto di noi stessi, i nostri occhi, i nostri sensi, le nostre convinzioni, le nostre idee, perfino le nostre fedi sono radicate nel tempo e devono fare i conti con i giorni, con gli anni, i minuti, le ore. Mentre le dita di Dio modellano l’argilla bianca dell’eternità.

Talvolta l’arte è capace di andare oltre le intenzioni, così la materia, quale che sia, si lascia plasmare dall’artista ma in realtà si fonde con la sua anima e la porta in alto, dove la luce si fa più intensa. Qui, nella purezza del bianco, l’uomo incontra se stesso e riscopre la capacità e la bellezza di dialogare con l’Infinito.


Marco Regattieri